Il teatro, si sa, è il luogo dei fantasmi. E un fantasma viene a trovarci. Dalla notte dei tempi. E’ Tiresia, che viene tenerci compagnia, questa sera. Ma si sa, la storia si modifica e riaggiorna i suoi fantasmi. E’ un Tiresia divenuto col tempo assai più sgamato, quello che ci appare: un po’ indovino un po’ cartomante, un po’ spin doctor, tanto per adeguarsi ai tempi che di ogni verità hanno fatto una favola. Torna per raccontarci di Edipo, che in effetti, almeno per quanto riguarda l’occidente, è la prima e più piena incarnazione dell’invito delfico: ‘conosci te stesso’. Fino in fondo. Fino a sprofondare nell’abisso su cui ogni coscienza individuale si fonda. Fino a smascherare l’immagine che ogni coscienza avrebbe voluto dare a sé stessa. Non volle chiudere gli occhi davanti allo specchio che gli si parava dinanzi, Edipo. Assediato da ogni parte da oracoli che lo mettevano in guardia, ha comunque assunto su di sé il fardello del responso. Prestare ascolto a questa domanda inaugurale, “chi sono?”, ci rende un unicum, un individuo con la sua biografia personale, insostituibile e responsabile. Il vate cieco, che per primo lo inchiodò alla sua verità, che conosceva da sempre tutte le sue peripezie, che non volle risparmiargli la crudele rivelazione, torna dunque a raccontarci le peripezie di chi risolse gli enigmi più incerti e, insieme, si rivelò uccisore del padre e sposo della madre. Ma mentre sbugiarda, sornione, le egoistiche ed ottuse voracità degli umani, l’indovino, consultato anche da Odisseo nel regno dei morti, rende un piccolo omaggio all’uomo che a Tebe sconvolse l’ordine dei tempi e della generazione. Un piccolo omaggio a quel fragile unicum che ognuno di noi è. Ci racconta così una storia. Una storia di vita, come si diceva un tempo. Perché ci si prenda cura, chissà, dei piccoli e grandi abissi che possono aprirsi nelle plaghe infinite del mondo e dell’anima.
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